CONDIVIDERE LA COMPASSIONE

Questa guerra ci sembra più grave di altre perché è più vicina e ha protagonisti e luoghi più simili ai nostri. Nelle immagini dal fronte, grande due volte l’Italia, riconosciamo le nostre case, le nostre automobili, i nostri vestiti griffati, i volti dei nostri bimbi, delle nostre donne, dei nostri vecchi e rabbrividiamo all’immagine di una Genova come Mariupol. Le immagini passano a ripetizione, come al rallentatore, e siamo tentati dal cambiar canale, ma su ogni canale troviamo lo stesso programma.

Davanti a queste immagini il nostro bisogno di informarci per seguire gli sviluppi degli eventi ci dà l’impressione di partecipare, quasi di interagire con quelle persone che vediamo soffrire. Ma la nostra attenzione e le nostre emozioni sono prodotti velocemente deperibili e a tutto questo dolore rischieremo di fare l’abitudine, come è stato per i morti in Afghanistan o in Siria, terribilmente simili, o per le continue morti dei migranti nel Mediterraneo. Basta scorrere il recente articolo del Sole 24 ore (qui) dove si parla dei conflitti più dolorosi aperti nel mondo, per accrescere lo sconforto; e non per peggiorare gli stati d’animo, ma per tenere aggiornata la consapevolezza, si potrebbe andare almeno una volta sul sito dell’ACLED (qui) dove si danno le caratteristiche più dettagliate e in tempo reale di questi conflitti, che hanno le stesse caratteristiche e lo stesso odore di morte.

Il rischio è che le emozioni si attenuino perché l’abitudine è il migliore degli anestetici, perché tendiamo a difenderci dalla sofferenza e ad annoiarci dalla ripetitività. Si palpita e si soffre per quello che ci tocca da vicino, finché ci tocca da vicino, ci dispiace sinceramente per tutte quelle persone che in televisione vediamo soffrire, ci rendiamo perfettamente conto che le nostre difficoltà non sono paragonabili a quelle di chi ha perso tutto, tuttavia il prezzo della benzina e della bolletta del gas entrano in concorrenza con l’assedio di Mariupol, per non parlare della minaccia nucleare… umano ma molto pericoloso proprio per la nostra umanità.  Che fare?

Proviamo a fermarci su questo estenuante effetto al rallentatore che tiene aperta la ferita anche dentro di noi, profonda e apparentemente priva di sbocchi o di cure. Essa nasce da una umana compassione che è quanto di meglio noi oggi possiamo coltivare. Ciascuno di noi e l’umanità intera. Non cediamo alla tentazione di fare subito qualcosa, dal cambiare canale al partire per il fronte, ma proviamo a goderci gli effetti di questa compassione. Dialoghiamo con essa, entriamo negli anfratti del cuore perché ci avvicini meglio a quegli altri che la suscitano e ai quali vorremmo stringere la mano, ospitare nella nostra casa, coprire con la nostra protezione, contempliamo quanti spazi vuoti e da riempire ci sono dentro di noi, vortici di bene, desideri di pienezza per il mondo intero.

Coltiviamo questo dialogo, facciamolo entrare nella fatica di alcune delle nostre relazioni quotidiane, parliamone con chi ci è vicino, e poi, insieme con gli altri, sforziamoci di interpretare quello che sta avvenendo, scegliendo le sorgenti più attendibili, mettendo in movimento le parti migliori delle nostre intelligenze, anche collettive, per rincorrere le soluzioni più sensate, concretizzare i sogni, facendovi entrare le sofferenze degli altri, perché le ferite possano rimarginarsi il prima possibile e fino all’ultima di esse.

Nella notte di Pasqua i credenti si esercitano in questo passaggio, compassionando il Crocefisso, dalla contemplazione delle piaghe alla loro guarigione, senza la pretesa di cancellarne le tracce, come il Signore fa, apparendo ai suoi.

Auguriamo a tutti gli amici della nostra Fondazione di partecipare a questo mistero, mettendo insieme le compassioni e poi anche le scelte migliori, quelle che sgorgano dalla loro sedimentazione, anche condivisa.

Padre Alberto Remondini SJ

 

 

8 Aprile 2022